145 Elbrus certificato
144 007 Azau Radka Andrei
143 021 Azau
143 015 Azau
143 014 Verso Old Viewpoint
143 010 Verso Old Viewpoint
143 009 Mir
143 004 Mir monumento ai caduti
142 032 Verso Garabashi
142 031 Verso Garabashi
141 041 Elbrus The Saddle
141 040 Garabashi
141 040 Elbrus Marco e James
141 039 Elbrus barrels
141 038 Garabashi mensa
141 005 Garabashi
140 020 Priut 11 hut
140 019 Priut 11 hut
140 014 Diesel hut
140 010 Priut 11 hut
140 006 Verso Piut 11 hut
140 005 Verso Priut 11 hut
139 021 Verso monte Cheget Mt Elbrus Andrei
139 013 Verso monte Cheget Mt Elbrus
Monte Elbrus, 2-12 luglio 2001
Dal diario di viaggio
Garabashi, 8 luglio 2001. Notte insonne prima dell’attacco alla vetta. Alle 3,30 la sveglia; esco fuori: 20 centimetri di neve fresca e continua a nevicare silenziosamente. Andrei dice di aspettare; ma probabilmente domani sarà peggio. Alle 5 entra nella nostra barrel hut: si parte. Colazione, ultimi preparativi e alle 6 siamo in marcia sul gatto delle nevi.
Pendenze mozzafiato con il mezzo che sembra debba rotolare giù e invece procede inesorabile in un turbine di neve e in 30 minuti copriamo 3 ore di cammino fino Pastukhova Rocks. Scendiamo con -5° C e inizia la battaglia. Ore di cammino guardando solo la neve sotto gli scarponi, senza la forza di alzare la testa. Intanto il tempo peggiora, ma siamo ben equipaggiati e nessuno ha freddo. Calziamo i ramponi: c’è un problema con i miei attacchi ma Andrei prontamente lo risolve. Ancora salita. Il gruppo è compatto e in forze: nonostante il cattivo tempo la vetta sembra nostra.
Ma ai 5.416 metri della sella, a 226 metri dalla vetta, si scatena in tutta la sua forza la tormenta. Proviamo a ripararci senza successo fra le assi di un rifugio diroccato; Andrei cerca una grotta dove infilarci; la trova, ma è troppo profonda per calarcisi dentro. Difficile respirare, fame d’aria, temperatura di -12° C. Una forte sensazione di pericolo in un ambiente ostile. Attimi di esitazione: la vetta è vicina, ma noi siamo stanchi e c’è tutta la via del ritorno da percorrere. In montagna il vero coraggio è sapere rinunciare alla meta vicina se le condizioni lo richiedono: torniamo indietro.
Ma le difficoltà non sono finite: la visibilità è minima e camminando controvento nella bufera gli occhiali sono un impasto di neve e ghiaccio. Procediamo in cordata, non distinguendo dove poggiare i piedi: per guida ho solo l’eterea figura di Andrei che si perde nella tormenta e un breve tratto di corda davanti a me. La possibilità di non riuscire a tornare si affaccia nella mente: generalmente non la si considera.
Scendiamo e scendiamo con gli elementi che ora ci lasciano requie ora si accaniscono su di noi. Le gambe sono due macigni e penso a Flavia che mi aspetta a casa. Non so quanto abbiamo camminato, ma il cammino sembra non finire mai. Quando finalmente distinguo nella neve le baracche di Garabashi gli occhi si inumidiscono e la tensione si allenta. Ormai non ho più le forze, soprattutto psichiche, per ritentare: l’Elbrus ha vinto; non si è fatto conquistare.
Dopo otto ore e mezzo di cammino in condizioni massacranti è prepotente la gioia di essere tornati sani e salvi con le proprie forze e anche se non abbiamo raggiunto la vetta anche questa è una bella conquista. Ma un grazie va soprattutto ad Andrei che ha saputo riportarci indietro in condizioni di visibilità nulla.