Rifugio del Monte, 21 giugno 2008. Fatica, quanta fatica, ma anche tanta gioia in questo primo giorno d’estate. Sono stremato da questa lunga giornata di oltre dieci ore di cammino, con un bel po’ di peso sulle spalle, perché sono qui per testare dell’attrezzatura Ferrino per un articolo.
Partenza all’alba con poca voglia in corpo: la mancanza delle mie piccole donne si fa sentire, e inoltre la certezza di una giornata di gran fatica. Fare le foto alle attrezzature da solo non è propriamente semplice: metti il cavalletto, corri in posa, torna alla macchina, manca la testa, corri, mancano i piedi, corri, è sfocata; e magari il vento minaccia di farti cadere la fotocamera. E bisogna dire che col digitale e il telecomando è più semplice di prima! Comunque la giornata splendida ha fugato i miei timori ed è con notevole entusiasmo che metto gli scarponi sul sentiero, mentre il sole appena sorto sulle lontane pianure aquilane scalda l’aria cristallina e limpida dei 2.130 metri di campo Imperatore. Il percorso è ben battuto e il rumore dei ciottoli sotto gli scarponi diviene presto un piacevole compagno. Da un altissimo balcone la vista spazia verso sud su boschi, pianure e abitati, schiacciati come una carta topografica oltre mille metri più in basso.
Improvvisamente al passo della Portella, antico valico fra i due versanti del massiccio, la vista si apre verso nord con un panorama mozzafiato che comprende vallate, alte montagne e, nei giorni limpidi, l’Adriatico. Il cammino si fa più ripido lasciandomi il tempo di ammirare le intense fioriture che si concentrano in questi mesi dell’anno: il vivace edrianto, l’intensa genziana e l’onnipresente papavero alpino.
La sella dei Grilli e poi la terribile pettata del pizzo Intermesoli, dura come la ricordavo: tre passi avanti e due indietro sulle sue ripidissime ghiaie. Dai suoi 2.635 metri una vista senza confini, verso il lago di Campotosto, la Laga, i Sibillini. Ma è già ora di ripartire verso la vetta settentrionale, lungo una cresta desolata di aride pietre calcinate dal sole. A destra troneggia il Corno Grande, a sinistra, al di là della val Maone, sprofonda la valle del Venacquaro, ancora abbondantemente innevata, oltre la quale si eleva la mole triangolare del monte Corvo. I 2.483 metri della vetta nord dell’Intermesoli sono un gigantesco blocco di pietra proteso nel vuoto e la sua cima costellata di massi sembra un castello con intricati corridoi e mura merlate.
Ma ora è tempo di una pipa.
Ottima pipa con vista sul sereno e maestoso scenario di questa valle, disseminata di massi ciclopici e chiusa a nord dalla parete del Corvo, con i boschi che la circondano dagli altri tre lati e le vette dell’Intermesoli che occhieggiano in lontananza.
Eravamo rimasti sulla nord dell’Intermesoli e si trattava di riuscire a scendere attraverso la conca del Sambuco con una via che le guide classificano “per escursionisti molto esperti”. Infatti non c’è sentiero, ma solo una ripida via di ghiaie dove bisogna scegliere a ogni passo la strada da seguire. Pietre che precipitano veloci; la necessità di tirarsi fuori continuamente dal fiume di ciottoli in movimento per evitare di prendere troppa velocità e poi finalmente ricompare un sentiero che si tuffa in un ombroso bosco di faggi. Si scende fin quasi a 1.100 metri prima di intraprendere la faticosa salita verso gli oltre 1.600 metri del rifugio. All’inizio un’agevole carrareccia, seppure abbandonata. Ma poi frane e vegetazione inghiottono la traccia e il cammino diviene faticoso e ripido in un bosco fitto che traversa sovente ruscelli e cascate. La sete mi tormenta e decido di abbeverarmi con gran sollievo a uno dei tanti corsi d’acqua. Le tracce di cinghiali sono assurdamente numerose e non mi solletica l’idea di dormire all’aperto. Dopo due ore di fatica e sudore finalmente mi affaccio sulla conca del rifugio e mi accorgo che posso dormire in sicurezza su una delle tante pietre piatte alte circa due metri. Ma non ce ne sarà bisogno: la porta del rifugio è aperta. Spartano, ma con tanto di provviste, candele, stufa, camino e tre pancacci per il sacco a pelo. Mentre mi avvio verso il ruscello un branco di cinghiali sbuca a 200 metri: otto adulti, di cui tre enormi e neri, e altrettanti cuccioli. E poco fa un altro branco alto sulla valle. Sono contento di dormire fra quattro mura.
Ora sono le 21,30 e qui fuori su questa pietra non ci si vede quasi più. Mi rifugio nel saccoletto mentre il cielo si riempie di stelle.
Il giorno dopo, 22 giugno. La notte è trascorsa tranquilla nell’isolato rifugio nel cuore della montagna densa di rumori notturni. Un po’ di preoccupazione si è affacciata nel mio animo al momento di infilarmi nel sacco a pelo, quando mi sono sentito veramente solo e isolato dalla civiltà.
Al mattino, risolte le ultime foto di lavoro, mi sono avviato di buon’ora. Stante la gran fatica del giorno prima e la notevole pesantezza dello zaino, ho rinunciato al Corvo e ho intrapreso la strada di casa attraverso un sentiero che risale la rocciosa spalla orientale di questa montagna. Un sentiero dimenticato, sicuramente importante nel passato per raggiungere gli alti pascoli e strappato in più punti alla roccia, ma sempre abbastanza camminabile. E mentre salivo nelle brume mattutine, si apriva sotto di me un paesaggio primordiale, di rocce aride, boschi sconfinati e cieli azzurrini, solcati da qualche raro rapace. Poi la risalita tranquilla nell’alta valle del Venacquaro densa di fiori e l’incontro con un cinghiale così grosso che da lontano l’ho scambiato per una mucca; quindi quella ben più ripida alla sella dei Grilli e la successiva discesa alle Capanne, a quota 1.957 metri. Gli antichi, preistorici stazzi sono rigogliosi di orapi e una mezz’ora di raccolto mi permette di riposarmi oltre che di fare incetta di oltre un chilo della pregiata verdura. Manca ancora la faticosa salita alla Portella e di lì è ormai solo una passeggiata verso la macchina, con i piedi così doloranti che posso contare ogni sassolino sotto le mie suole.