Monti Invisibili
Anello dei laghetti
Quota 1.686 m
Data 28 ottobre 2016
Sentiero parzialmente segnato
Dislivello 1.120 m
Distanza 25,22 km
Tempo totale 7:52 h
Tempo di marcia 6:22 h
Cartografia Il Lupo Gran Sasso d’Italia
Descrizione Da quota 1.686 della S.S. 17 bis per il Lago della Fossetta (1.648 m, +4 min.), il Lago di Barisciano (1.604 m, +25 min.), il Lago di Passaneta (1.561 m, +32 min.), i ruderi dell’abbazia di Santa Maria del Monte (1.616 m, +15 min.), le Condole (1.412 m, +43 min.), Santo Stefano di Sessanio (1.251 m, +1,10 h) con visita del borgo (+15 min.), il Piano delle Locce, i ruderi di Santa Maria dei Carboni (1.244 m, +1,06 h), la Valle Ombrica e la macchina (+1,52 h). Splendido anello in ambiente isolato e selvaggio con notevoli tracce di storia contadina e pastorale.
Anello dei laghetti, 28 ottobre 2016. Il Gran Sasso è un massiccio magnetico, con le sue creste occidentali che dominano valli incise e boscose, le aspre elevazioni orientali e con il dolomitico gruppo centrale che si ammira da buona parte dell’Appennino. Ma ai margini meridionali di Campo Imperatore si estende un territorio di valli selvaggio e solitario, ricco di una storia rurale aspra e rocciosa sovente trascurata dalle torme di camminatori.
Dopo alcune settimane di prigionia urbana, giunge quindi il momento della fuga per andare a esplorare questo dedalo, dove profonde ed evidenti sono le tracce di un’antica attività umana.
Un vento teso e gelido mi accoglie ai 1.686 metri e rapido caracollo nella valle per cercare rifugio dalla furia di Eolo.
Dal vicino Lago della Fossetta un’erbosa mulattiera s’incunea fra la Montagna Grande e la Cima di Faiete, appena sfiorate dai raggi di un sole accecante. Il vento si abbatte in treni selvaggi, anticipati da un cupo e profondo rombo che prepara al colpo in arrivo.
Un remoto latrare m’introduce al tempestoso Lago di Barisciano, dove marosi e procelle elevano improvvise nubi d’acqua che s’infrangono sul sottoscritto e sulla sua attrezzatura fotografica.
Attraverso lungamente una valle dorata, popolata di cavalli bradi, e sono al Lago di Passaneta, sorvegliato da un attonito ovile. Ancora pochi minuti e il vicino valico da accesso alle silenziose rovine della grangia cistercense di Santa Maria del Monte, dove il termine indicava una vasta azienda produttiva monastica.
Del duecentesco complesso benedettino dedito alla pastorizia rimane poco, ma sono ancora visibili le mura della chiesa e gli ampi recinti a secco per il bestiame. Nella quiete del vento mi aggiro a lungo fra le antiche pietre dense di licheni, con vista sul Prena e il Camicia, celati da un cordone di nembi, e sul Monte Bolza, che da qui è una lama affilata.
Saluto il Piccolo Tibet di Fosco Maraini e la mente va ad altri luoghi e ad altre persone.
Fra i gialli e gli ocra della stagione mi avvio verso il labirinto di valli che sostiene Campo Imperatore, seguendo un’antica traccia pastorale, percorsa nei secoli dai monaci. Pochi appezzamenti sono ora coltivati, ma nel passato, quando la fame incalzava, qui era tutto un brulichio di genti che provava a strappare alla terra di che vivere.
Ne sono testimoni i cumuli di pietre che costellano questo carsico territorio, frutto di un paziente e defatigante lavoro di sminamento, gli sbiaditi terrazzamenti, ma anche le condole, rifugi pastorali dalla volta a botte, divenuti qui anche toponimo e dove si ritiravano i monaci quando l’inverno non permetteva più la permanenza sull’altopiano.
Il Corno Grande si affaccia appena sul fascino remoto di questa plaga e mentre il sentiero si fa tratturo e carrareccia, Rocca Calascio sotto un tetto di nubi segna l’ingresso nel borgo terremotato di Santo Stefano di Sessanio, orfano da tempo della sua torre.
Un panino, una birra e sotto un sole grato, fra mura cinte di ferro, mi avvolgo nelle spire della mia pipa.
È tempo di riprendere il cammino per calare nel fertile Piano delle Locce, da secoli coltivato a ceci, cicerchie, lenticchie e patate. Un diverbio con cani pastore e sono alle perdute rovine della chiesa di Santa Maria dei Carboni, parte della grangia di Campo Imperatore. Poco rimane dell’antico edificio riadattato a ricovero pastorale, ma sotto le collassate volte è ancora visibile l’altare e dal pendio mi fissano le infinite orbite vuote delle locce, un altro tipo di costruzione rurale condotta per scavo, misero ricovero per poveri contadini e sparute greggi.
Volgo le spalle a questo primitivo villaggio agro-pastorale d’altura e fra vaghi terrazzamenti m’infilo nello stretto Vallone d’Ombrica che mi reca all’omonima valle.
Con le gambe pesanti l’attraversamento è infinito, ma eccomi al valico dove di nuovo il vento è padrone di questo mondo arcaico che ormai non è più.