Parafrasando Robert Byron, sto vivendo uno di quei rari momenti di pace assoluta, in cui il corpo è rilassato, la mente non s’interroga e il mondo è un trionfo. E tutto perché “Ikea” è lontana.
E così anche la Majella è momentaneamente archiviata con una camminata di lieve fatica in uno degli angoli più affascinanti del massiccio abruzzese. E, guarda caso, proprio il 21 luglio (il 21-7) arrivo alle 217 vette. Ma non solo: mi accorgo che oltre al traguardo dei 2000 dell’Appennino, mi sto approssimando a quello dei 300.000 metri di salita, per i quali mancano appena 12.512 metri.
Ma andiamo con ordine. Alle 9 sono ai piedi del fantastico vallone di Taranta, che scende roccioso dai remoti altipiani sommitali. Salto sulla bidonvia e appeso alla fune mi inoltro senza fatica alcuna in questo canyon dalla grandiosità nordamericana. Ai 1.388 metri della stazione di testa mi incammino solitario nel poderoso vallone: pinnacoli di roccia ocra sembrano tante ciclopiche sentinelle ritte a sorvegliarne l’accesso e oscuri occhi di caverne incutono quel tanto di timore che basta e rendere il luogo ancora più remoto e affascinante. Una bellezza piena che pervade l’anima a satura i sensi, e incute l’orrore di essere aspirati nel vuoto della bruttezza quotidiana.
Mi inerpico sul bordo e in breve tocco le due poco evidenti cime del Colle d’Acquaviva, con lo sguardo che vola nella profonda ferita del vallone e sulla sua testa, dominata dal solitario promontorio dell’Altare dello Stincone.
Il ripido sentiero del ritorno mi conduce alla bocca spalancata della grotta del Cavallone, ambientazione della tragedia dannunziana La figlia di Iorio. E così, dopo averla cavalcata, varco le sue fauci e mi introduco nella fredda pancia della montagna, fra stalattiti, stalagmiti, colonne, abissi e antri.
E’ tempo di tornare alla luce del sole e in breve sono nuovamente nel mio cestello appeso alla corda, per la placida e panoramica discesa verso una birra e un pacco di patatine.